mercoledì 28 novembre 2007

I am Beowulf. No, it's a lie.

Deluso a tre quarti.

A tre quarti perché il Beowulf di Zemeckis parte come un razzo. Centra subito un paio di topoi caratteristici del poema. Grandioso.

Il problema è che, al momento della risoluzione finale, tutte le questioni aperte, rimangono tali.

Per prima cosa, il film riesce ad esprimere bene la complessità di un personaggio come l'eore eponimo, il problema è solo che lo rende complesso nella direzione opposta al poema: laddove il testo ci offre un Beowulf come un "eroe" che, al contrario di molti eroi greci "nati" tali, si è fatto da solo, un bambino timido e schernito dai coetanei che s'è conquistato il proprio titolo, il film ci dà un uomo debole e vanesio che diventa molto meno interessante non appena comincia a mentire.


Ma se il poema ci svela la chiave di interpretazione dell'intreccio proprio nel finale, qui la pellicola si rivela frettolosa e quasi irriverente con se stessa. Ma come, lo scontro con il drago dura solo sei minuti? E il tema della colpa, che fine fa? E a cosa cavolo vuole alludere quel finale? Quale diavolo è, la morale della storia?
La grande vampata che chiude la vita di Beowulf avrebbe abbisognato di una decina di minuti in più per rispondere a molti interrogativi aperti nel primo atto.


Insomma, hai voluto sacrificare un personaggio come Beowulf, hai voluto dare un padre a Grendel (era importante che non lo avesse, nell'epica), e posso accettarlo in virtù delle ipotesi interessanti che si solleva sui motivi dei personaggi, e dei temi che tiri in ballo. Ma almeno, porca puttana, sviluppameli questi cazzo di temi!

Che minchia serve mostrare un Grendel innocente, sofferente, punito da una natura mostruosa, mettergli in bocca una linea di dialogo eccezionale (sulla base di una nota linea interpretativa del poema), e poi farmelo morire, senza spiegarmi mai perché sia così.
Cosa serve introdurre così magnificamente il personaggio del Drago (sì, qui è un personaggio vero e proprio), se poi viene approfondito ancor meno dell'archetipo immortale che era nell'epos?

Cosa serve insinuare il tema dell'Evangelizzazione e la fine dell'era pagana, se poi la cosa rischia di rivelarsi quasi solo un pretesto per cambiare qualche texture?

E che cosa rappresenta quella sirena nel flashback, di cui Beowulf non rivela nulla a nessuno? Sarebbe la madre di Grendel? E se sì, che cavolo ci faceva lì?

Perlomeno il danese Beowulf & Grendel chiudeva il proprio cerchio interpretativo. Per quanto registicamente minore, l'interpretazione della storia aveva una sua dignità nella completezza, e un suo senso. Persino Il 13° Guerriero si è dimostrato abile nel catturare l'essenza dell'opera, nonostante fosse stato tagliuzzato e rimontato in ogni sua parte.

A fine film mi sono sentito come dopo un'ora e mezza di Black Dahlia, quando i personaggi cominciano a parlare di cose che lo spettatore non ha nemmeno visto. Colpa di un montaggio e di un adattamento da cani.
Solo che qui si fa finta che molte cose viste non siano state dette o mostrate.

Insomma, più che lo Zemeckis perfettino di Forrest Gump e Back to the Future, qui abbiamo di fronte quello criptico di Cast Away. Solo ancor un po' più criptico. Forse troppo. Mai stato così poco chiaro, il mio buon Bob.

La paura più grande, è che Zemeckis abbia cercato solo un pretesto per mostrarci di che cosa sono capaci le sue workstation.
Perché, la cosa più interessante, è che Zemeckis in persona ha costretto gli sceneggiatori Avary e Gaiman (sì, quell'Avary e quel Gaiman) a riscrivere il finale col drago, "da un verboso confronto a uno scontro su scogli e mare". Maestro mio, a volte ai film servono i dialoghi.


Oh, comunque è un buon film. Pollice su. Sicuramente migliore di Troy.
L'atmosfera del poema c'è tutta, ad esempio. E i dialoghi in Old Eglish sono incredibili.
Sono arrabbiato perché c'erano le basi per il Capolavoro, e invece è solo un buon film.
Troppa carne al fuoco non viene cotta, e io preferisco un piccolo brandello saporito, piuttosto che tre chili di filetto crudo.

mercoledì 14 novembre 2007

And into the Legend...


In questo titolo è palesata la magia che Enix sapeva infondere nei giochi. Gli storici limiti strutturali e interattivi da sempre rinfacciati ai giochi di ruolo, qui assumono il ruolo di pregi. I combattimenti a turni? Qui funzionano alla grande. I dungeon? Qui divertono e sono disegnati con intelligenza. Il level-upping? Quello è dal primo capitolo che è spontaneo quanto il salvataggio della partita. In ogni frangente, un’infinità di piccole cose fanno sì che riscopriamo il piacere del classico gioco di ruolo. Quello che, partendo da presupposti ambientali e narrativi basilari, quasi banali, riesce a intelaiare una struttura composita e ordinata, che sarebbe divenuta il know-how basilare dei jRPG per oltre un decennio. Ancora adesso i game-designer d’oriente faticano a trovare un’alternativa duratura e ampliabile alla concezione ruolistica di Dragon Quest III (sebbene i tentativi non siano affatto mancati) che è la maturazione immortalante della struttura dei primi due giochi.

La grafica è monumentale. Infischiandosene dei limiti hardware di una macchina che, bene o male, era sempre stata inferiore a qualsiasi concorrente sul mercato, Enix porta sul piccolo schermo del GameBoy Color costruzioni visive di assoluto valore, supportate da una palette quasi infinita. Si susseguono strutture estetiche imperfettibili, se non in sterili interpolazioni ideali. I limiti macchina non esistono. Ed ecco effetti di deformazione dell’immagine, castelli e città e dungeon disegnati con una perizia per i dettagli quasi maniacale.

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lunedì 5 novembre 2007

Getting to the Dark Tower

Il 22 Ottobre 2005, alla veneranda età di sedici anni, provai a scrivere un'epitome poetica della saga della Torre Nera di Stephen King. Non chiedetemi perché ci provai, ma fu così. Penso che ogni buon alunno di un Liceo Classico abbia provato almeno una volta a buttar giù qualche verso.
Comunque, inventai un metro adatto: stanze di sette versi con la seguente organizzazione: 11a- 9a- 11b- 9c- 9b- 11c-7a' (l'ultimo verso rima con il primo verso della stanza seguente). Scelsi un vocabolario tipicamente epico (qualcosa a metà tra il Tasso e il Boiardo) e in un paio di settimane riuscii solo a riassumere due terzi del primo romanzo, L'Ultimo Cavaliere ("The Gunslinger"); ma non è detto che un giorno non provi a terminare l'epitome.


L’uomo in nero nel deserto fuggì
e il pistolero lo seguì.
Nell’apoteosi d’ogni deserto,
Roland il cavaliere, raccontò
quanto a Tull avesse sofferto,
e come tal cittadina fiammeggiò
sotto le sue pistole.


Ma le sue paure non eran le sole:
un fanciullo, le cui parole
provenivan da diverso universo,
volle essergli paggio e scudiero.
Non era il ragazzo disperso,
lì fu evocato dal mago nero,
per far Roland soffrire.


Lo stregone nero, Walter si suol dire,
ma Marten lo si potea udire,
fece rovina e distruzione della
di Roland famiglia e patria,
che una volta era sì bella,
raggiante, regale e piena di grazia.
Di ciò il fece massacro.


I due giunsero in un luogo sacro,
d’una fata era simulacro.
Pria Jake, il ragazzino, fu tentato,
ma Roland lo trasse e fu in vece.
Il futuro fu rivelato;
--------------------------- fece:


[da qui salto all'epilogo del primo romanzo]

Il cavaliere ultimo e il suo avversario
raggiunsero assolato ossario,
ove discorrer de’ massimi e minimi
per notte che ne vale cento:
si spiegaron lì gli animi,
vani verbi volaron come vento.
Primo il libro finì.


Io mi sono divertito tanto a scriverlo.



venerdì 2 novembre 2007

Eternauti e psiconauti

Nessuno s’era mai chiesto a cosa servissero a Mario tutte quelle monete. Nessuno s’era mai chiesto che volessero fare quelle tartarughe che andavano avanti e indietro. Alla fine era bello che ci fossero, punto.

E’ un fatto che la narrazione non sia di per sé propedeutica per un videogioco. A nessuno è mai fregato di chi stesse dentro il Vic Viper, chi fosse l’omino di Turrican, che cosa blaterano i personaggi di Resident Evil 4 nelle cut-scene.

E’ un fatto che dal 1996 i platform game s’erano abbastanza fossilizzati nella struttura e nel contenuto, più o meno in linea con altri generi videoludico (picchiaduro in primis). Salta quello, raccogli questo, colleziona quello, vai da A a B. Qualche lampo brillante di Rare e Oddworld Inhabitants, ma niente che riscrivesse le regole del platform, nessun Maniac Mansion, per intenderci.

Psychonauts procede alla totale giustificazione narrativa del proprio gameplay, un’operazione tanto geniale quanto fantasmagoricamente complessa per calarci appieno dentro la sospensione dell’incredulità, tanto che sarà difficile uscirne.

Parafrasando Umberto Eco (che si riferiva a Charles M. Schulz), se “poesia” vuole dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Psychonauts è poesia.

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