Tratto da "Voglia di Vincere" di Tom Brissel.
Un giorno i miei figli mi chiederanno dov’ero e cosa stavo facendo quando gli Stati Uniti hanno eletto il loro primo presidente nero. Potrei dire ai miei bambini – del tutto ipotetici; chiamiamoli Kermit e Hussein – che in quel momento ero a casa e che, come centinaia di milioni di altri americani, stavo guardando la televisione. Questa sarebbe una risposta da politico, come a dire formalmente corretta ma imprecisa rispetto a tutta una serie di dettagli importanti. Ma visto che Kermit e Hussein meritano una risposta particolareggiata e onesta, gli dirò che il 4 novembre del 2008 loro padre viveva a Tallinn, in Estonia, dove le ore conclusive del giorno delle elezioni americane corrispondevano alla fredda mattina color salmone del 5 novembre, e che le mie intenzioni quel giorno erano di guardare CNN International finché non fosse stato proclamato un vincitore. Dovrò poi raccontare a Kermit e Hussein quant’altro è successo in quel 4 novembre 2008.
Il videogioco postapocalittico Fallout 3 era stato ufficialmente rilasciato sul mercato europeo il 30 ottobre, ma non ve n’era traccia in Estonia. Da diverse settimane la Bethesda Softworks, l’azienda sviluppatrice di Fallout 3, pubblicava online una serie di video promozionali, che io mi ero guardato e riguardato con avidità porno-feticista. Avevo lasciato detto al miglior negozio di videogiochi di Tallinn: «chiamatemi appena vi arriva Fallout 3». Nel tardo pomeriggio del 4 novembre, il telefono finalmente ha squillato. Quando ho inserito il gioco nel lettore della mia Xbox 360, in America mancavano due ore alla chiusura dei primi seggi. Un’ora di Fallout 3, mi sono detto. Forse due. Assolutamente non più di tre. Sette ore dopo, stordito e con gli occhi gonfi, ho spento la Xbox 360 e mi sono sintonizzato sulla CNN, solo per scoprire che era già terminato il discorso di accettazione.
E quindi, mio adorato Kermit, mio caro piccolo Hussein, nel momento in cui l’America è cambiata per sempre, vostro padre vagava per una terra desolata, straziata da missili balistici intercontinentali, tenendo nervosamente d’occhio il suo livello di radiazioni, armato solo di una mazza da baseball, una pistola calibro .10 e sei pallottole, a caccia di una feroce gang di predoni con la cresta che non lasciavano presagire proprio niente di buono, e di cui dovevo assolutamente occuparmi. Se ve lo dice il vostro papà, dovete fidarvi.
Fallout 3 è stata la prima uscita Bethesda dopo The Elder Scrolls IV: Oblivion del 2006. Entrambi i giochi rientrano in un genere noto con diversi nomi: open-world¹, sandbox² o free-roaming³. Questo genere segue alcuni paradigmi generali, tra cui la sensazione di trovarsi in un vasto mondo che esiste e funziona a prescindere da noi, una storia principale che può essere abbandonata per seguire storie secondarie (o anche senza nessuno scopo particolare) e la possibilità di personalizzare (o pimpare, nel gergo dei nostri tempi) il personaggio principale controllato dal giocatore. I piaceri che riservano i giochi open-world sono tanti, complessi e profondamente soggettivi; la loro forza è difficile da spiegare, un po’ come la religione, della quale questi giochi diventano, per molti, un surrogato. A causa della libertà che lasciano ai giocatori, del modo in cui premiano l’esplorazione con infiniti intrecci e missioni e della loro convincente illusione di sconfinatezza, i migliori giochi open-world tendono a diventare dei virus mangia-tempo-libero. Per quanto sembri incredibile, ho finito col giocare a Oblivion per più di duecento ore. Lo so perché il gioco tiene il conto del tempo complessivo che ci passi davanti. Mi viene in mente una sola attività personale che mi vergognerei di più a veder misurata in questo modo e anche quella è un’esperienza da singolo giocatore.
È difficile descrivere Oblivion senza rivivere la paura atavica di essere assalito da quegli stessi idioti col giubbotto jeans che nel 1985 lanciarono nel lago Michigan il mio Manuale dei mostri di Advanced Dungeons & Dragons volume II (Il fatto che non ci giocassi nemmeno, a D&D, e che avessi il libro solo perché mi piaceva guardare le figure, non servì̀ a commuovere i miei assalitori.) Quanto al contenuto di Oblivion, mi limiterò a dire che ci sono orchi e incantesimi di «evocazione degli scheletri». Quindi: duecento ore davanti a Oblivion? Come accidenti ho fatto? A dire il vero, non ne sono sicuro. Per completare le missioni della storia principale c’è voluta una minima parte di quel tempo, ma nel mondo di Oblivion puoi raccogliere fiori, esplorare caverne, tuffarti sott’acqua in cerca di tesori, comprare case, scommettere sui combattimenti dei gladiatori nell’arena, andare a caccia di orsi e leggere libri. Oblivion, più che un gioco, è un mondo che gratifica soprattutto chi vi esercita una piena cittadinanza e io, per qualche tempo, ho vissuto nel suo mondo e quella cittadinanza l’ho rivendicata. All’epoca vivevo a Roma, grazie a una borsa di studio letteraria molto ambita, circondato da persone interessanti e di grande talento e, in modo del tutto naturale, sono sprofondato in una depressione più spaventosa e intensa di qualunque altra prima o dopo di allora. Mentirei se dicessi che Oblivion, in qualche modo, non abbia accentuato la mia depressione, ma mi ha anche dato qualcosa con cui riempire le giornate che non fosse il logorarmi nell’autocommiserazione. Era una vita extra; e sono grato di averla avuta.
Quando la Bethesda annunciò di aver acquisito dal defunto studio Interplay, che aveva creato i primi due Fallout, i diritti per sviluppare Fallout 3, in molti manifestarono dubbi. Come se la sarebbe cavata l’elfica immaginazione che aveva dato vita a Oblivion con le ben diverse ambientazioni di una devastata America del ventitreesimo secolo? I primi Fallout, che giravano solo su pc, erano stati elogiati per la satira arguta e per l’esagerata violenza che spesso sconfinava nel grottesco. Oblivion è satirico quanto una colonscopia e i combattimenti, per quanto non si possano definire nonviolenti, sono spesso insolitamente poco dinamici.
La Bethesda ha rilasciato il primo video dimostrativo di Fallout 3 nell’estate del 2008. In esso Todd Howard, produttore del gioco, guida il personaggio principale dentro una Washington resa quasi irriconoscibile dalla devastazione atomica e caratterizzata da pochi ruderi significativi – tra i quali spicca un malconcio Monumento a Washington – che bastano a renderla profondamente inquietante. A giudicare da quei pochi minuti, Fallout 3 sembrava essersi già assicurato un posto tra i giochi di maggiore impatto visivo mai realizzati. Quando la Bethesda ha pubblicato un video in cui mostrava la modalità di combattimento in Fallout 3 – una brillante sintesi tra i convulsi scontri a fuoco degli sparatutto in prima persona e le più riflessive strategie a turni dei videogiochi di ruolo tradizionali, in cui attacchi, subisci il contrattacco del nemico, contrattacchi e così via, finché uno dei due combattenti non muore – in molti non hanno creduto ai propri occhi di fronte all’audacia della sua violenza un po’ cartoonesca e un po’ Peckinpah. Era in gran parte presentata al rallentatore, tanto disgustosa quanto perversamente bella: teschi che esplodono tra nitidi brandelli di bulbi oculari, materia grigia e vertebre cervicali; arti che si liquefanno in una costellazione di perle rosse; torsi che fanno capriole in aria. Il consenso generale ha spazzato via ogni scetticismo: Fallout 3 sarebbe stato una figata pazzesca.
Neanche a dirlo, le prime sette ore che ho passato a giocarci sono state caratterizzate da una grande abbondanza di elementi positivi. Primo tra tutti, l’estetica del mondo di Fallout 3. La direzione artistica di molti videogiochi ad alto budget ha il divertito parassitismo di una cover band. L’ispirazione visiva è pericolosamente scarsa: le foreste sono sempre incantate come quelle di Tolkien; le zone industriali futuristiche sono labirinti di passerelle metalliche prevedibilmente a grate; le sparatorie scoppiano in viali cosparsi di macerie e macchine, presi in prestito dagli assedi di migliaia di film di guerra. Da quando i videogiochi si sono spogliati della peculiare grafica vettoriale e dei colori a 8-bit delle origini, un loro sottoinsieme di successo sempre maggiore è maturato, lentamente ma in modo inesorabile, fino a diventare quella che è forse, sul piano visivo, la forma d’arte più derivativa della storia. Fallout 3 è un raro gioco ad alto budget la cui derivatività è un punto di partenza, non di arrivo.
Si apre nel 2277, due secoli dopo un conflitto nucleare tra Stati Uniti e Cina. Cronologicamente parlando, il mondo che questa guerra ha distrutto risale al tardo ventunesimo secolo, eppure le sue rovine sono quelle dello sgargiante futurismo in voga durante la Guerra fredda. I poco offensivi robot-sentinella Protectron di Fallout 3, per esempio, sono un evidente plagio del robot Robby di Il pianeta proibito, e i molti esemplari di cartelloni pubblicitari scoloriti risalenti a prima della guerra che si trovano all’interno del gioco scimmiottano l’embrionale patinatezza dello stile grafico degli anni cinquanta. Fallout 3, coraggiosamente, adotta come sue basi estetiche un futuro vecchio di sessant’anni che è anche uno dei meno credibili mai concepiti. Il risultato è una bizzarra, affascinante atmosfera da isola che non c’è, antiquata e futuristica al tempo stesso, che permea ogni angolo del gioco: George Jetson oltre la Sfera del Tuono.
Un’altra cosa che mi ha colpito di Fallout 3 è la varietà di scelte offerta fin dalle fasi iniziali. Il primo insediamento in cui ci si imbatte, Megaton, è stato edificato attorno a una testata nucleare inesplosa, oggetto di venerazione da parte di uno strano culto religioso nativo della città. Megaton può servire come base operativa o essere spazzata via dalla faccia della terra poco dopo il nostro arrivo facendo detonare l’atomica in cambio di una considerevole ricompensa. Io ho passato un bel po’ di tempo a girarmi Megaton e conoscere i suoi numerosi cittadini. Il che significa che le mie prime ore dentro Fallout 3 erano, fondamentalmente, del tutto facoltative. Anche per gli standard di un gioco open-world, questo lascia immaginare una stupefacente ricchezza di varianti narrative. (Alla fine, ovviamente, ho trovato il tempo per tornare indietro e atomizzare la città.)
Infine, Fallout 3 è una gioia per gli occhi. Certo, gran parte dei giochi moderni – anche i più scarsi – lo sono. Rimarcare un aspetto del genere è un po’ come andare dallo chef di un ristorante con le stelle Michelin e dirgli che le sue tovaglie sono un amore. Ma resta il fatto che, a un certo punto di Fallout 3, stavo correndo su per le scale di quella che una volta era la stazione della metropolitana di Dupont Circle e, quando mi sono voltato per sfondare il cranio di un ghoul radioattivo, ho notato quanto fosse realistico e inebriante il riflesso con cui il sole alto a mezzogiorno screziava le venature del manico in legno della mia mazza. In momenti del genere, è difficile non restare sbigottiti – per non dire commossi – dalla cura che è stata messa anche nei più piccoli dettagli dell’ambientazione.
Nonostante tutto ciò, ho avuto dei problemi con Fallout 3 e molti di questi problemi mi sembrano emblematici del bivio di fronte al quale i videogiochi in genere si trovano attualmente. Prendete, per esempio, il tutorial di Fallout 3. Poveri game designer: è difficile pensare a una convenzione formale più intrinsecamente bizzarra del tutorial di un videogioco. Immaginate che, ogni volta che iniziate un libro, siate costretti a sopportare un capitolo in cui i personaggi non fanno altro se non parlare tra loro dei meccanismi fisici di come leggerlo. Sfortunatamente, i game designer non hanno scelta. I controlli cambiano, a volte drasticamente, di gioco in gioco e i creatori non possono semplicemente relegarne le meccaniche essenziali al libretto di istruzioni: sarebbe una violazione del patto di interattività tra gioco e giocatore. Molti videogiochi, pertanto, devono trovare un pretesto narrativo plausibile per far compiere al personaggio principale attività che siano al tempo stesso abbastanza istruttive ma non tanto complesse da ostacolare il proseguimento del gioco. I giochi fortemente incentrati sul combattimento quasi sempre risolvono il dilemma iniziando, senza troppa creatività, in una sorta di campo di addestramento o con un giro di esercitazioni.
Il tutorial di Fallout 3 inizia, in modo piuttosto ambizioso, con la nascita del proprio personaggio, durante la quale si può scegliere la razza e il sesso (se il gioco lo permette, scelgo sempre una donna, chissà per quale motivo) e creare il proprio aspetto futuro (probabilmente è questo il motivo). A tirarci fuori dal canale uterino materno è nostro padre, a cui presta la voce Liam Neeson (molti giochi cercano di darsi un tono fin da subito con comparsate di attori famosi; in Oblivion era toccato alla laringe di platino di Patrick Stewart). Bisogna riconoscere che alcuni aspetti del tutorial di Fallout 3 sono geniali: quando si impara a camminare da bambini, in realtà si sta imparando come muoversi all’interno del gioco; si decide se si vuole che il proprio personaggio sia principalmente forte, intelligente o carismatico leggendo un libro per bambini; e, quando il tutorial balza in avanti fino al decimo compleanno, si imparano a usare le armi quando si riceve in regalo una pistola giocattolo. Il tutorial fa un altro balzo in avanti, questa volta in una classe di liceo, dove si definisce ulteriormente il proprio personaggio rispondendo alle dieci domande di un test attitudinale. La cosa interessante di tutto ciò è che si sta personalizzando il personaggio in modo indiretto piuttosto che diretto, e molte delle domande (una chiede che faresti se tua nonna ti ordinasse di uccidere qualcuno) sono morbosamente divertenti. Per quanto usare un test attitudinale all’interno del gioco per creare la personalità del protagonista non sia esattamente una novità, Fallout 3 ce ne dà l’interpretazione migliore dal punto di vista dell’efficienza, dell’economia del racconto e dell’originalità dell’interazione.
Arrivato al test attitudinale, però, mi sentivo già un cittadino dissidente del Vault 101, l’isolata società sotterranea nella quale comincia davvero Fallout 3. Il mio scontento riguardava una serie di cose. La prima erano i dialoghi di Fallout 3, alcuni dei quali così orrendi («Oh, James, ce l’abbiamo fatta. Una figlia. La nostra splendida bambina») che Stephanie Meyer a confronto sembra Ibsen. La seconda era l’ossessione di Fallout 3 per una ridondanza narrativa da far cadere le braccia, come quando nostro padre annuncia: «Non riesco a credere che hai già dieci anni» quando è del tutto evidente che siamo alla festa per il nostro decimo compleanno. La terza, e la meno perdonabile, è la caratterizzazione «a stampo da budino» di Fallout 3: nei primi dieci minuti di gioco si spettegola con la coraggiosa miglior amica, si trema di fronte al leader megalomane e ci si guadagna la fiducia del poliziotto di buon cuore. Il Vault 101 ha perfino il suo gruppo di teppisti, i Serpenti del Tunnel, il cui capo ricorda un Fonzie maligno. Anche su uno sfondo da Guerra fredda futurista, una gang giovanile di motociclisti in una società sotterranea nell’anno 2277 è la definizione stessa di idea cretina. Durante la sequenza finale del tutorial, il capo dei Serpenti del Tunnel, che ci ha tormentato fin dall’infanzia, chiede il nostro aiuto per salvare sua madre dagli scarafaggi radioattivi (una lunga storia), un capovolgimento così poco credibile che, per il fastidio, ho ucciso lui, sua madre e chiunque altro sia riuscito a trovare nel Vault 101 con l’arma più perversamente gratificante che avessi a portata di mano: una mazza da baseball. Lasciare che siano le nostre decisioni a stabilire l’identità del personaggio, che sia un mostro spaccateste, un pazientissimo santo o una via di mezzo tra i due, è un’altra delle caratteristiche migliori di Fallout 3. Queste pretese di moralità, tuttavia, mi hanno stancato presto, perché avvenivano in un universo creato da geni e sceneggiato da Ed Wood Jr.
Avevo davvero aspettato un anno per questo? E davvero mi stavo perdendo un evento cruciale della storia americana per continuare a giocarci? Sì e sì, e non sapevo spiegarne il motivo. Poi ho ripensato a quelle duecento ore che avevo passato davanti a Oblivion, un gioco che ha tutti i difetti di Fallout 3, e anche qualcuno in più. La storia di Oblivion ha diverse scene scritte in modo così esageratamente lezioso che, dopo aver assistito a una di esse, la donna con cui vivevo all’epoca aveva annunciato che mi avrebbe revocato l’accesso alla sua vagina fino a data da destinarsi. Un mio amico, altro drogato di Oblivion, mi ha confessato di giocarci col volume a zero dopo che sua moglie, scrittrice, durante una cena tra amici, aveva acidamente liquidato il tempo che lui passava «in compagnia di elfi che dicono solo stronzate».
Quello che mi imbarazzava di Oblivion non erano gli elfi, erano le stronzate. E da Fallout 3 certo non mi aspettavo una tecnica narrativa e una caratterizzazione dei personaggi degne di un romanzo, e men che mai alcun plausibile realismo. Accetto volentieri che, nel mondo di Fallout 3, Supermutanti armati fino ai denti si aggirino per le strade, fucili vecchi di duecento anni continuino a funzionare e il mio personaggio possa beccarsi una scarica di mitragliatrice a canne rotanti in faccia e poi riprendersi bevendo acqua o facendosi un sonnellino. Tutte assurdità, ovviamente, ma Fallout 3 scorre così liscio che a certe cose neanche ci fai caso. Qualunque videogiocatore sa che una meccanica di gioco ben congegnata è un’arte tanto quanto la narrazione di una storia. Ci si accorge subito di quando la giocabilità viene meno, perché in qualche modo si ha la sensazione che qualcosa non vada. Quando è la storia a non funzionare, la disfatta è ancora più assoluta. Passano un sacco di sensazioni, ma nessuna di quelle che ci vuole trasmettere chi sta raccontando la storia.
Io la penso così: se stessi leggendo un libro o guardando un film che mi costringe a mandar giù litri di tranquillante estetico ogni dieci minuti, smetterei di leggerlo o di guardarlo. I videogiochi, per qualche motivo, non hanno questo problema. O piuttosto, hanno il problema di non avere questo problema. Nei videogiochi mi ritrovo a perdonare di continuo grossolanità che non tollererei in nessun’altra forma d’arte o d’intrattenimento. Per molto tempo la mia giustificazione è stata che, se un gioco era divertente, si poteva sorvolare su certe carenze. Sono arrivato ad accettare che, in quasi ogni aspetto di quella che definirei la tecnica narrativa tradizionale, i videogiochi semplicemente non fossero all’altezza. Negli ultimi anni, però, è stato sempre più evidente un dilemma. I giochi sono diventati, per molti versi, incredibilmente sofisticati ma allo stesso tempo sono rimasti testardamente legati ad aspetti della tecnica narrativa tradizionale verso i quali hanno sempre dimostrato poca sensibilità. Per il modo in cui troppi videogiochi ancora insistono a raccontare le loro storie, una certa abilità nel gestire trame e personaggi è determinante – e spesso imprescindibile – per la buona riuscita della narrazione.
Di contro, c’è chi sostiene che, in giochi come Fallout 3, il mondo in cui si svolge l’azione ha più rilevanza della storia che è stata pensata per regolare l’avanzata del giocatore al suo interno. È un ragionamento valido, specialmente visto quanto il mondo di Fallout 3 sia meraviglioso nella sua devastazione e ipnotico nel senso di solitudine che evoca. Ma se è il mondo l’aspetto fondamentale, perché preoccuparsi di creare una storia? Perché non tagliare semplicemente il nastro di questo mondo di fantasia e lasciare che i giocatori lo esplorino? La risposta è che, probabilmente, un gioco del genere non sarebbe molto coinvolgente. Le trappole, dopotutto, hanno bisogno di un’esca. In un gioco narrativo, la storia e il mondo si combinano per creare un’esperienza. Come scrive il game designer Jesse Schell in The Art of Game Design, «Il gioco non è l’esperienza. Il gioco rende possibile l’esperienza, ma non è l’esperienza». In un mondo vasto come quello di Fallout 3, che permette di vivere un’esperienza incentrata sul vagabondare e sulla solitudine, la storia fornisce, se non altro, una direzione e uno scopo di cui si sente un grande bisogno. A meno che, in futuro, un qualche gioco narrativo non cambi radicalmente le aspettative dei giocatori, le storie, con o senza Supermutanti, resteranno per molti videogiochi il mezzo per incanalare la fruizione dei loro particolarissimi e stravaganti mondi immaginari.
Lo ammetto: i giochi che mi interessano di più sono quelli che decidono di raccontare delle storie. È vero, i videogiochi, in un certo senso, hanno sempre raccontato delle storie. scimmione cattura fidanzata di un idraulico! è una storia, ma è una favoletta rudimentale e totalmente priva delle sfumature evocative o degli spauracchi di una vera fiaba. I videogiochi vengono spesso paragonati ai film, il che può sembrare sensato, viste le molte somiglianze (entrambi hanno una colonna sonora, in entrambi figurano attori, entrambi usano un linguaggio cinematografico e così via). Ma a un’analisi più approfondita il confronto crolla pezzo a pezzo. Nel loro modo di raccontare una storia, non potrebbero essere più diversi. I film preferiscono un tipo di narrazione compressa, che si può attuare perché c’è qualcuno che decide dove puntare la macchina da presa. I videogiochi, invece, contengono più di quanto qualunque giocatore possa mai sperare di vedere, e poiché la persona che decide dove puntare la macchina da presa è, spesso e volentieri, proprio il giocatore, non è da escludere che le «parti migliori» possano rimanere nell’ombra. Dopotutto, quando fissiamo il cielo notturno, la parte migliore non sono le stelle, ma le infinite possibilità di ciò che si trova tra una stella e l’altra. I videogiochi spesso producono una sensazione simile, con la differenza che è possibile scoprire cosa c’è lassù. Brulicanti di segreti, aree nascoste e sorprese che magari saltano all’occhio soltanto alla seconda o terza volta (o quarta) che li rigiochi da capo – ancora sorrido se penso a quando sono riuscito ad arrivare in un isolato, introvabile angolo della Zona Contaminata di Fallout 3 e sono stato accolto dalla parola fanculo scritta con lo spray su una roccia – i videogiochi utilizzano una forma narrativa che è, per molti aspetti, senza precedenti. Le convenzioni di questa forma narrativa risalgono a pochi decenni fa e sono state create da zero da uomini e donne che ancora camminano tra noi. Non sono molti i media i cui Dante e Omero sono raggiungibili al telefono per una chiacchierata. Con i videogiochi questo si può fare.
Non mi interessa stabilire se i videogiochi siano meglio o peggio dei film o dei romanzi o di qualsiasi altra forma d’intrattenimento. Ciò che mi interessa è quello che i videogiochi possono fare e quali emozioni mi suscitano mentre lo fanno. Confrontare i videogiochi con altre forme d’intrattenimento serve solo a ricordarci quello che non sono. La narrazione, comunque, non appartiene ai film più di quanto appartenga ai romanzi. Film, romanzi e videogiochi sono economie separate di cui la narrazione è la moneta comune. Il problema è che, in un ampio spettro di videogiochi, la narrazione dà troppo spesso la sensazione di essere contraffatta ed è facile stancarsi di dover lavare il denaro sporco.
Va detto che Fallout 3 migliora decisamente col passare delle ore. Alcuni momenti (come quando bisogna rubare la Dichiarazione d’indipendenza dall’Archivio Nazionale in rovina, protetto da un robot imparruccato programmato per credersi Button Gwinnett, il secondo firmatario della Dichiarazione) sono avvincenti quanto la migliore fiction che io conosca. Ma non può essere una coincidenza se ogni scena in cui ci siano in ballo le emozioni umane (confrontarsi con un androide cui è stata cancellata la memoria e che crede di essere umano, o guardare un personaggio a te caro mentre soffoca e muore) è poco coinvolgente nel migliore dei casi e risibile nel peggiore. C’è davvero da sorprendersi se le più profonde pulsioni umane restano inattingibili per una forma narrativa che tratta i personaggi come assegnazioni di valori numerici a ipotetiche abilità e caratteristiche?
Nel suo insieme, Fallout 3 è un gioco di profonda eleganza, ricercatezza e intelligenza, al punto che, ogni volta che una caratterizzazione è soltanto abbozzata o che un nodo narrativo non funziona, ne soffro. Quando diciamo che un gioco è ricercato, stiamo dando un giudizio troppo generoso? È necessario adottare un criterio di giudizio completamente nuovo? Ciò che intendiamo è forse che il gioco in questione insulta solo occasionalmente la nostra intelligenza? O questo tipo di intelligenza, almeno quando si tratta di videogiochi, non dovrebbe proprio essere chiamata in causa? Com’è possibile, infine, che io continui a tornare a una forma d’intrattenimento che trovo così incredibilmente frustrante? A quale parte di me parlano i videogiochi, e su quale frequenza?